A Settembre al Cinema “Amy – The Girl Behind the Name” – Recensione

amy_04   Sono passati poco più di 4 anni da quando il mondo si è svegliato privo di Amy Winehouse e della sua voce. La morte di un’artista straordinaria, avvenuta a 27 anni (coincidenza che l’ha fatta entrare nell’inquietante immaginario Club 27 insieme a personalità come Jimi Hendrix, Jim Morrison e Kurt Cobain) dopo aver inciso solo due album e aver vinto 6 Grammy Awards, non è però arrivata come un fulmine a ciel sereno, ma può senz’altro essere descritta come una tragedia annunciata.

Il mondo dei media aveva infatti già da tempo avviato l’operazione di accerchiamento della cantante, inviando frotte di paparazzi che come degli avvoltoi immortalavano ogni progresso del processo di autodistruzione cui Amy si era ormai abbandonata.

amy_02In questo senso il documentario di Asif Kasadia, regista inglese di origine indiana, è un’opera che mira a mettere in scena tanto le spire del vortice fatale in cui era caduta l’autrice di Back to Black quanto una personalità complessa e carismatica che probabilmente era poco adatta al successo restituendo al pubblico uno sguardo approfondito anche sugli anni adolescenziali e sul poco noto esordio musicale della jazzista.

Presentato fuori concorso durante lo scorso Festival di Cannes, Amy – The Girl Behind the Name grazie a Nexo Digital arriverà nelle sale italiane come evento speciale il 15, 16 e 17 settembre (qui l’elenco delle sale).

Si tratta di una pellicola che fa ampio uso di materiale d’archivio, costituito da riprese di concerti, apparizioni pubbliche ma sopratutto – ed è questo l’elemento innovativo che emozionerà i fan – da video privati registrati dalla famiglia, amici d’infanzia, manager, entourage, fidanzati, che mostrano quella che era la vera Amy Winehouse.

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Scopo del documentario di Kasadia è infatti la costruzione di un ritratto emozionale di una giovane donna. Non siamo di fronte a un reportage che intende distribuire colpe e responsabilità – per quanto queste emergano chiaramente – quanto piuttosto a una lunga testimonianza di circa due ore che assume il punto di vista di chi le è stato vicino nelle varie fasi della vita della Winehouse.

Stupisce la vastità del materiale recuperato dal regista e cucito insieme dal montatore Chris King, una congerie di formati tra i più disparati, non sempre esteticamente perfetti ma estremamente efficaci nel dare vita a molti momenti da brividi in cui si aprono spiragli sull’intimità di un’artista che metteva tutta se stessa nei testi cui regalava la propria voce sofferente.

Quella che emerge è una Winehouse del tutto diversa dall’ombra conosciuta dal grande pubblico negli ultimi anni della sua esistenza: una persona fragile, tormentata da vari problemi mai risolti in maniera definitiva e che danneggiavano le sue relazioni, salvata unicamente dall’amore per la musica, preferita sempre e comunque al successo.

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Certo, il documentario Amy non ha pretese intellettuali (l’affermazione del regista di aver strutturato il film sui testi delle sue canzoni risulta leggermente pretestuosa) e per fortuna non tenta neanche di risolvere l’enigma di un destino che sembra segnato fin dalle prime immagini. Ma non è questo il suo obiettivo, in quanto ogni passaggio è costruito con l’intento di commuovere lo spettatore: un intento che in altri casi si definirebbe ricattatorio e voyeuristico, e che invece in questo frangente risulta essere appropriato per l’onestà di fondo con cui è stata portata avanti l’operazione.

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