“The Revenant” (o “come ti vinco l’Oscar mangiando carne cruda e rischiando l’ipotermia”) – Recensione

Leonardo DiCaprio e l’Oscar: un matrimonio che non s’ha da fare.

dicaprioDa anni il web si fa beffe del povero Leonardo, protagonista si svariati meme inerenti la sua ossessione per la statuetta dorata e ad ogni nomination la frase è sempre quella: “questa è la volta buona!”.
Come se la bravura di un attore (o di un regista, sceneggiatore e così via) fosse decretata dall’aver o meno vinto un premio che, è ben noto, spesso segue strategie che vanno oltre il fattore artistico, andando a premiare le deformità fisiche, le interpretazioni di portatori di handicap o di persone emarginate e così via..
È risaputo che nemmeno un grande regista come Stanley Kubrick è stato premiato dalla Academy Awards, ma non importa scomodare le leggende della cinematografia per trovare tra i mai premiati nomi altisonanti come quelli di Johnny Depp, Brad Pitt, Robert Downet Jr. e Gary Oldman (scandalosamente nemmeno mai nominato fino al 2012, quando ottenne la candidatura per “La Talpa”).

Ad ogni modo non si certo dire che il buon Leo non ci ha provato: tra l’interpretazione del ragazzo disabile di “Buon Compleanno Mr. Grape” a soli diciannove anni e quella del broker strafatto e senza limiti di “The Wolf of Wall Street” passa una intera carriera di ruoli brillanti e indimenticabili, ma che all’Academy proprio non sono andati giù.
Ad un certo punto però il buon DiCaprio deve essersi detto: ho provato a fare il disabile, ho provato a rendermi irriconoscibile (J. Edgar), a fare il cattivo (Django Unchained), il pazzo (The Aviator, ma qui la lista si allungherebbe): ora tentiamo il tutto per tutto.

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Il tutto per tutto si chiama “The Revenant”, un film sulla carta nato per prendere una montagna di Oscar (e le nomination infatti sono state ben 12): la vicenda, ambientata all’inizio dell’Ottocento, è quella (molto liberamente ispirata ad una storia vera) di Hugh Glass, guida di una spedizione in cerca di pelli sopravvissuto con parte del suo gruppo all’attacco di una tribù indiana e ridotto in fin di vita e quasi muto dall’attacco di un grizzly.

Credendolo sul punto di morire, il comandante della missione decide di proseguire senza di lui, lasciandolo alle cure del figlio Hawk (nato dalla relazione dell’uomo con una indigena della tribù Pawnee), del giovane Bridger e dell’avido cacciatore Fitzgerald (interpretato da un grande Tom Hardy, giustamente candidato come miglior attore non protagonista), affinché gli diano una degna sepoltura prima di proseguire nel cammino.
Fitzgerald, rimasto solo per riscuotere la ricompensa promessa dal capitano, cerca di soffocare Glass per poter tornare velocemente all’accampamento, ma viene sorpreso da Hawk e lo uccide per poi convincere con l’inganno Bridger a fuggire con lui.
Inizia così il duro viaggio di Glass (che ha assistito impotente all’omicidio) verso la sua vendetta.

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“The Revenant”, ultimo lavoro del regista Alejandro González Iñárritu ad un solo anno dal trionfale Birdman (che gli valse l’Oscar come miglior regista, oltre a quello per il miglior film), finisce per parlare molto più del suo autore che non dei personaggi che della pellicola dovrebbero essere protagonisti: pomposo al limite del borioso in ogni scena, con piani sequenza perfetti e quasi infiniti anche durante le scene di azione più concitate, solenne nel riprendere una natura bellissima e incontaminata quanto potente e inarrestabile, “The Revenant” è una lunga (eccessivamente lunga) lista di scene tecnicamente perfette, ma umanamente vuote, dove la bellissima fotografia di Emmanuel Lubezki (che quest’anno potrebbe portare a casa il terzo Oscar consecutivo dopo quello del 2014 per Gravity e quello del 2015 per Birdman) ruba la scena a un pugno di personaggi che vanno avanti per la loro strada, abbandonati a sé stessi non solo nella natura selvaggia, ma anche dal regista, troppo intento ad ammirarsi e farsi ammirare per la propria bravura stilistica per ricordarsi che c’è una vicenda che si sta dipanando e alla quale gli spettatori dovrebbero in qualche modo sentirsi partecipi.

Realizzato praticamente tutto in esterno e utilizzando solamente la luce naturale, il film è stato girato tra il Canada e la Terra del fuoco in Argentina, costringendo la troupe a vivere per mesi a temperature comprese fra i trenta e i quaranta gradi sotto zero e lavorando solo nelle poche ore di luce disponibili.
L’esperienza è stata un vero tour de force, con parte della troupe che ha abbandonato il set per le troppe difficoltà incontrate durante la realizzazione, il budget che è più che raddoppiato dai 60 milioni previsti inizialmente fino ai 135 finali e DiCaprio che afferma di aver dormito in carcasse di animali morti, di aver mangiato carne cruda, di aver rischiato l’ipotermia e di aver recitato con la febbre e la bronchite per rendere l’interpretazione più autentica possibile.

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Quello che emerge però, dopo le due ore e mezza abbondanti di “The Revenant” è la poca abilità di DiCaprio (che di solito ruba la scena con la sua esuberanza) con l’interpretazione minimalista, che si riduce a una lunga serie di smorfie mentre il suo corpo viene sballottato da una parte all’altra fino al bel confronto finale tra Glass e Fitzgerald, che non basta però da solo a salvare la pellicola da tutti i suoi difetti.

Con “The Revenant” Inarritu ci regala una prova narcisistica al limite dell’onanismo, mentre DiCaprio, più intento a sopravvivere che non a recitare, potrebbe aver trovato nella tortura fisica alla quale si è sottoposto la via per l’ambita statuetta.

*** attenzione spoiler ***
La sensazione che prova lo spettatore all’uscita della sala è tutta nello sguardo finale, dritto in camera, del personaggio di DiCaprio quando, ottenuta la sua vendetta, rimane senza più una motivazione per cui vivere: il vuoto assoluto.

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