“I trentenni non esistono più, come gli gnomi, il dodo e gli esquimesi. Adesso c’è l’adolescenza, la post-adolescenza e la fossa comune. I trentenni sono una categoria superata, a cui ci si attacca per nostalgia, come il posto fisso.” Questa la parafrasi di Emanuele Scaringi, regista esordiente al lungometraggio con “La profezia dell’armadillo”, adattamento dell’omonima graphic novel bestseller di Zerocalcare, nelle sale da domani 13 settembre.
Zero ha ventisette anni, vive nel quartiere periferico di Rebibbia, più precisamente nella Tiburtina Valley. Terra di Mammuth, tute acetate, corpi reclusi e cuori grandi. Dove manca tutto ma non serve niente. Zero è un disegnatore ma non avendo un lavoro fisso si arrabatta dando ripetizioni di francese, cronometrando le file dei check-in all’aeroporto e creando illustrazioni per gruppi musicali punk indipendenti.
La sua vita scorre sempre uguale, tra giornate spese a bordo dei mezzi pubblici attraversando mezza Roma per raggiungere i vari posti di lavoro e le visite alla Madre. Ma una volta tornato a casa, lo aspetta la sua coscienza critica: un Armadillo in carne e ossa, o meglio in placche e tessuti molli, che con conversazioni al limite del paradossale lo aggiorna costantemente su cosa succede nel mondo.
A tenergli compagnia nelle sue peripezie quotidiane, nella costante lotta per mantenersi a galla, è l’amico d’infanzia Secco.
La notizia della morte di Camille, una compagna di scuola e suo amore adolescenziale mai dichiarato, lo costringe a fare i conti con la vita e ad affrontare, con il suo spirito dissacrante, l’incomunicabilità, i dubbi e la mancanza di certezze della sua generazione di “tagliati fuori”.
La generazione di Zero è cresciuta negli anni Novanta quando i trentenni erano visti come degli adulti, persone salde con un preciso posto nel mondo. Oggi che è diventato trentenne si trova sospeso in un limbo. Come tanti suoi coetanei la vita non è molto cambiata dalla fine della scuola. In bilico fra un lavoretto e l’altro, alcuni costretti a vivere con i genitori, altri a reinventarsi continuamente. Fuori dai cicli della produzione.
“La Profezia dell’Armadillo” è un film che vede la partecipazione di attori del calibro di Laura Morante, Pietro Castellitto, Kasia Smutniak, Claudia Pandolfi, Simone Liberati e Valerio Aprea, per una produzione Fandango dell’ormai veterano del cinema Domenico Procacci.
Una pellicola a tratti cinica e disillusa, soprattutto quando a parlare è il Zero trentenne, e a tratti tenera e romantica, nel momento in cui la realtà cede il passo ai fasti dell’infanzia: un’infanzia vissuta a Rebibbia, Tiburtina Valley – un quartiere da cui si parte ma difficilmente si arriva. Di cui si parla solo quando balza agli onori delle cronache. Ma che non si deve immaginare solo come un grande quartiere dormitorio: a Rebibbia la gente ci lavora, si sposa, ci cresce e a volte ci muore anche. “Sono i luoghi abitati dalle persone normali quelli che mi interessano. Uno squarcio di città inusuale, non il centro da cartolina, dove Zero e Secco si rifiutano di andare, ma una metropoli del mondo dove le classi sociali si mescolano” (Emanuele Scaringi).
E si mescolano anche i ricordi, le musiche del passato con quelle del presente, le paure di ieri con le ansie di domani, in un mix dove l’unica costante è l’immancabile presenza, appunto, dell’armadillo: la voce della coscienza di Zero, il suo alter ego, il suo grillo parlante che, col suo fare un po’ paternalistico ma anche sempre con un’ aplomb ineccepibile e un’empatia dopotutto molto azzeccata, mette il protagonista di fronte alla domanda: “Vuoi davvero far esplodere il mondo o lo vuoi fare implodere dall’interno”?
Qualcosa che, alla fin fine, ci siamo chiesti tutti: che siamo di Roma Nord o Roma Sud, di Tiburtina o Silycon Valley, la cosa non cambia, perché il film tocca temi universali in chiave ironica ma lucidamente grottesca, anche se forse in un tono più adatto ad un pubblico adolescenziale che trentenne – come d’altronde è Zero: un teenager intrappolato nel corpo di un adulto.