Si chiama Antonello Antonelli il giornalista che ha pubblicato il suo rammarico dopo l’allontanamento dalla redazione de Il Tempo. La comunicazione della cessazione di collaborazione sarebbe arrivato tramite una semplice lettera precompilata a cui hanno aggiunto il suo nome.
Pubblichiamo alcuni stralci del suo sfogo che trovate in versione completa al seguente Link Esterno
Una “lettera di licenziamento”, praticamente.
Una lettera che interromperà il 31 ottobre prossimo un rapporto che è iniziato nel 1992, quando a 17 anni ho iniziato a scrivere i pezzi delle partite del Miglianico Calcio ogni domenica e che si è ufficializzato il 31 agosto 1993 con il primo contratto di collaborazione coordinata e continuativa, che mai in questi vent’anni si è trasformato in un’altra, seppur minima, opportunità, nonostante che da oscuro corrispondente sportivo di paesi dell’hinterland chietino, piano piano sono diventato “ragazzo di redazione”, specie d’estate, poi “specializzato” in alcuni settori di mia competenza esclusiva (università, mondo religioso), poi “promosso” a notista politico ed esperto di cronaca amministrativa e, via via che i vari stati di crisi che hanno accompagnato gli ultimi anni della vita del giornale portavano via colleghi o per prepensionamento o per ridimensionamento, sempre più “cronista unico” della città di Chieti e dintorni, fino a diventare una specie di “tuttologo teatino”.
Ma per me “Il Tempo” non è quello di questa lettera asettica, modellino precompilato ed inviato a tutti i collaboratori, indistintamente (quelli “storici” come quelli da poco approdati in redazione), ma è quello di Giampiero Perrotti, mio primo caposervizio, che mi ha letteralmente “iniziato” alla professione, che correggeva ogni refuso ed ogni riga, che rileggeva fino alle 23.00 ogni articolo prima di dare il via libera alla redazione, che tracciava con righello e matita il menabò della pagina; quello di Peppino Vincolato, che mi portava con sé nelle pause pranzo e mi spiegava le dinamiche della città, che mi invitava a passeggiare con lui tra le vie di Chieti per cogliere anche i piccoli segnali di vita “reale” da raccontare poi sul giornale, che mi insegnava a non prendersi troppo sul serio come “paladino della verità e della giustizia”, idea romantica del giornalista che a vent’anni coltivavo anch’io; quello di Massimo Pirozzi, “terribile” caporedattore regionale, capace di farti una sfuriata a pomeriggio inoltrato e farti rifare da capo il pezzo che ti aveva “miracolosamente” commissionato per la prima o le pagine regionali, nonostante fossi un “giovane collaboratore”, salvo poi chiamarti per farti i complimenti e dirti che aveva dovuto urlare “per insegnarti che significa lavorare bene”;
Che fine faranno i tanti colleghi che hanno lavorato per tanto tempo e con tanta passione? I contrattualizzati andranno in cassa integrazione a zero ore, disperdendo un patrimonio di professionalità non indifferente, ma loro non me ne vorranno se io mi ricordo soprattutto dei collaboratori, che nel frattempo sono stati ridotti a poco meno di venti (ne eravamo una settantina, la vera potenza de “Il Tempo”): loro che fine faranno?